La frisa è la memoria commestibile del Salento, il filo sottile che tiene legate le generazioni in una terra che cambia, ma non dimentica.
Secondo una leggenda, la frisa approdò sulle coste locali con Enea, la sua origine potrebbe risalire al tempo delle Crociate, quando i cavalieri avevano bisogno di un pane secco che si conservasse a lungo, le storie tramandate dai nonni invece, raccontano che erano il pasto dei i contadini e dei pescatori.
Si tratta di un tarallo biscottato, cioè cotto due volte, ottenuto dalla lievitazione di un impasto di farina (ma anche orzo o cereali), sale e lievito, lavorato a mano a cui viene conferita la tipica forma tonda e che poi viene infornato. Quando è ancora caldo, il panetto viene tagliato a metà con uno spago e rimesso in forno. Un tempo le frise venivano conservate nelle capase, oggi in più comode buste di plastica.
Anche la sua preparazione è un rituale che segue gesti precisi, prima l’immersione in acqua fredda per alcuni secondi, non troppi, perché altrimenti si “sponza”, poi il condimento con pomodori maturi schiacciati e tagliati a pezzi, olio extravergine d’oliva, origano, un pizzico di sale e, se c’è, qualche oliva nera.
Oggi la frisa è diventata un piatto gourmet, viene declinata in vari modi e servita anche nei ristoranti più rinomati, qualcuno l’ha persino trasformata in un dolce. I condimenti sono sempre più originali ed elaborati, negli scorsi anni, la speculazione economica su un piatto così identitario di una regione ha creato non poche e giuste polemiche, ma per i salentini, la vera frisa, rimane quella che hanno imparato a conoscere sin dall’infanzia, mangiata sporcandosi le mani di pomodoro e il profumo del Salento nel cuore.