Il processo per l’omicidio di Simone Renda torna in aula tra poche ore. Il bancario leccese di 34 anni lasciato morire, senza cibo nè acqua, nel carcere di Playa del Carmen il 3 marzo del 2007, mentre era in vacanza in Messico.
Davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Roberto Tanisi, otto imputati, tutti messicani, tra dirigenti e guardie di quella prigione, rispondono di omicidio volontario commesso, secondo l’accusa “sottoponendo Renda a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, al fine di punirlo per una presunta infrazione amministrativa durante la sua detenzione nel carcere municipale di Playa del Carmen”.
Quattro di loro però sarebbero stati già giudicati in Messico, con l’accusa, ben più lieve, di omicidio colposo. Tre sono stati condannati a pene commutabili in multe tra gli 8 e i 9mila pesos (si tratta del giudice qualificatore Hermila Valero Gonzalez, del responsabile dell’ufficio ricezione del carcere Cruz Gomez e della guardia carceraria Enrique Sánchez Nájera) ed uno prosciolto (il vicedirettore del carcere Pedro May Balam).
Questi imputati oggi chiedono l’applicazione del principio del “ne bis in idem”, che prevede che nessuno possa essere giudicato due volte per lo stesso reato. All’applicazione di tale principio si oppongono i legali che assistono la famiglia di Renda, gli avvocati Pasquale Corleto e Fabio Valenti, sostenendo che il “ne bis in idem” non ha senso di esistere in questo processo “in quanto manca una specifica convenzione bilaterale o multilaterale che regoli la materia tra l’Italia e il Messico”.
La Corte si pronuncerà nelle prossime ore.