LECCE – Via Federico D’Aragona, la “strada dei pub”, come la chiama chi è vissuto a Lecce a cavallo del nuovo millennio, quando quella che era una comune via del centro storico, iniziò a colorarsi di locali che, uno accanto all’altro, nel corso degli anni hanno visto avvicendarsi gestioni e clienti.
Di alcuni locali resta un vago ricordo, ma altri sono ancora lì, pezzi della storia di una città e tra un pub e una pizzeria, tra un b&b e un bar alla moda, serafica c’è lei, quel capolavoro di architettura e bellezza che è la Chiesa di San Matteo, sui cui gradini sono nati amori e amicizie, si sono consumati drammi adolescenziali, si sono letti libri o riordinati appunti, si sono fatti brindisi mentre la vita scorreva in quel connubio simbolico tra la sacralità di un luogo di culto che accoglie il popolo della movida.
La chiesa di San Matteo che conosciamo oggi, fu eretta tra il 1667 e il 1700 sulle rovine di un’altra chiesa, sempre dedicata a San Matteo, ma risalente al XV secolo.
La storia della prima chiesa si lega al nome di una nobildonna, Audisia De Pactis che trasformò la sua residenza in un monastero di clausura per le suore Francescane del Terzo Ordine.
Una volta chiuso il monastero, fatta eccezione per alcuni archi conservati nel cortile della sagrestia, nulla fu salvato perché l’intero stabile fu smembrato e diviso tra privati che ne fecero la loro residenza.
L’attuale struttura fu edificata per volere di Monsignor Pappacoda che commissionò il progetto all’architetto Achille Larducci.
Osservare la facciata della chiesa di San Matteo è come fare un giro sulle montagne russe dell’architettura barocca: il primo ordine presenta una forma convessa che diventa concava nel secondo, il portale è sormontato da una nicchia vuota ma decorata dalla cornice su cui spicca l’insegna dell’ordine; la parete che fa da sfondo alle decorazioni viene interrotta dalla bugnatura a punta di diamante laterale dove trovano alloggio due nicchie, anch’esse vuote eppure finemente decorate dalla cornice.
Lo stile cambia nuovamente nel secondo ordine, dove si torna ad un’apparente semplicità della parete e delle paraste scanalate da cui partono i festoni laterali su cui si apre la finestra trifora impreziosita dalla cornice decorata con fiori cesellati e due nicchie vuote e sormontata dal timpano.
Un gioco di vuoti e di pieni che risucchia chiunque si fermi ad osservare sgomento dinanzi al mistero del passato, delle intenzioni dell’architetto, degli ospiti che mai hanno abitato quelle nicchie, con l’impulso di passare la mano sulle pareti bugnate e accarezzare al contempo la pietra liscia, nuda, indifesa.
All’interno, la cura dei particolari, la raffinata scelta di ogni decorazione, la forma ellittica della navata, cullano lo sguardo tramettendo un inaspettato senso di pace, come se si avesse la percezione di poter trovare rifugio e salvezza proprio lì, tra quei nove altari custoditi in cappelle con archi a tutto sesto abitati da Santi, Sante e Madonne.
Sant’Oronzo, la Sacra Famiglia, Sant’Anna, la Madonna della Luce, L’Addolorata, L’Immacolata, Santa Rita, San Francesco d’Assisi e Sant’Agata. Sono loro i protettori di questa chiesa che accompagnano lo sguardo verso l’imponente altare centrale.
Gli spazi della navata sono scanditi da paraste scanalate e sulle semicolonne dominano la scena i dodici apostoli scolpiti in pietra leccese nel 1692 da Placido Buffelli.
Proprio alle spalle delle semicolonne, quando la struttura ospitava il convento, si affacciavano le suore per assistere alle funzioni religiose e tuttora è possibile vedere dieci finestre bifore.
In San Matteo la luce non manca ed è grazie alle finestre posizionate sopra la cornice dorica, che può entrare ed esaltare la naturale imponenza delle statue di San Matteo dell’altare centrale, San Marco, Santa Caterina, Santa Elisabetta, pezzi di storia che convivono con altri pezzi di storia, come l’involucro ligneo dell’organo originario del XVIII secolo originariamente locato in Santa Croce, il commovente affresco della Vergine col bambino di matrice cinquecentesca salvato dalla distruzione del tempio di Santa Maria della Luce, il dipinto di Sant’Agata di Pasquale Grassi e la statua lignea della Pietà del XVII secolo.
Al termine di questo racconto, dato che non di sola fede si nutre la mente, apriamo le porte ad un mistero che da sempre affascina turisti, leccesi e studiosi: le colonne del prospetto.
Ciò che subito salta all’occhio è infatti la differenza tra le due colonne poiché quella sinistra è per metà completamente liscia e priva di ornamenti, quella destra invece è finemente decorata ed è per questo motivo che nel corso dei secoli è diventata la “colonna del diavolo”.
La leggenda narra che il diavolo, attento osservatore e fine stratega, tenendo d’occhio il lavoro dello scultore che si stava occupando della decorazione delle colonne, si accorse che stava realizzando un capolavoro che avrebbe sicuramente invogliato anche i non fedeli ad entrare e quindi le possibilità che si convertissero erano elevate. Così decise di togliere la vita all’artista affinché la colonna rimanesse incompiuta dando alla facciata un aspetto poco invitante. In realtà il diavolo aveva fatto male i conti, perché quello fu e ed è tuttora il motivo per cui le persone si fermano ad ammirare San Matteo e decidono di entrare, che poi sia per pregare o meno poco importa, perché l’elevazione dello spirito passa a prescindere dalla contemplazione della bellezza.